Le Belle Arti. Il fumetto e la tradizione
La persone colte, che hanno studiato Belle Arti, sono spesso completamente ignoranti in materia di fumetto e illustrazione. Lo sguardo non è per nulla lo stesso. D’altra parte devo ammettere che provo un certo disprezzo per il mondo dell’arte. Dopo la Seconda Guerra mondiale, tutto si è fatto più confuso all’interno del settore, il linguaggio estremamente verboso; il modo in cui se ne parla mi pare uno «speak-art». Un gergo. Non capisco di che cosa parlino. E nemmeno se si capiscano tra di loro. Suppongo di sì. È un linguaggio isolato e tagliato fuori dal mondo reale. E il denaro vi è diventato onnipresente! In realtà, più ce n’è, più va tutto a puttane. Nei comix e nell’illustrazione, le cifre in gioco sono ben lontane da quelle dell’arte. Sono molto più oggettive, direi. All’antica. L’arte istituzionale ha appena cominciato ad assimilare i comix. Quando io ho cominciato, negli anni ’60, la gente che si occupava d’arte mi diceva sempre la stessa cosa: «Perché fai fumetti? Sei dotato. Prendi una tela e dipingi». Sarei d’altra parte tentato di vedere in questa assimilazione un segno tra i tanti di una sorta di crisi del mondo dell’arte. Quest’ultimo si è ingrandito in maniera spettacolare. Non vi è più alcuna circolazione, e tuttavia un continuo bisogno di sangue fresco. Diciamo che, a partire dal cubismo, ha fatto della rottura il suo credo. Ogni artista che voglia farsi un nome deve creare qualcosa d’interamente nuovo e originale. Bisogna che distrugga tutto ciò che ha corso oggi. Quanto potrà durare? Oggi si strizza l’occhio al mondo dell’arte popolare, al fumetto, e poi? Chi c’è dopo sulla lista?
La minaccia include gli stessi capitali in gioco, in quanto le grosse somme di denaro non vengono investite su cose destinate a essere moltiplicate attraverso la stampa. Il fine della mia arte è la stampa. Non la tavola originale. Certo, le mie tavole mi fanno guadagnare un bel po’ di soldi. Ma d’altra parte la cosa mi soddisfa solo parzialmente. Non mi eccitano molto l’esporre e cose del genere. In ogni caso molto meno di quando vedo ciò che diventano i miei disegni una volta stampati. Il brivido, per me, sta lì; la magia è questa: il volume fresco di stampa. Ora, al giorno d’oggi, posso farmi più soldi con le tavole originali che con i miei libri. Come si fa a dire no a una cosa simile? E tuttavia, la vivo come una perdita di tempo, e mi dà fastidio. [...]
[...] Mi sento molto più vicino ai miei colleghi disegnatori. Sono loro gli artisti con i quali ho più affinità. Il fumetto è un medium a parte. Raccontare una storia è una cosa pazzesca. Non vuol dire soltanto disegnare un affare sul muro. Si tratta di un medium con imperativi e bisogni particolari. Tra di noi, parliamo molto dei grandi del passato che ci hanno ispirato, degli illustratori che ammiriamo. Tutto gira intorno al disegno e alla tradizione dell’illustrazione. All’interno del mondo del fumetto, nessuno arrossirebbe all’idea di essere stato influenzato da qualcuno. C’è questa fierezza di appartenere a una tradizione. È l’idea stessa di tradizione che è forte tra di noi. E la trovo sana. Nessun bisogno di distruggere checchessia. Non ci vergogniamo di prendere in prestito una tecnica o un arnese già usati da un altro artista; ognuno di noi ha gli stessi problemi da risolvere: disegnare una figura, mettere le ombre, tratteggiare, usare un pennello, usare un pennino. È la ricchezza della nostra tradizione. Quando si guarda a ciò che ha fatto un tipo come Joseph Beuys, ci si accoge di quanto poco esso sia. Non sono altro che idee astratte, non evocano nessuna tradizione del mestiere dell’arte. D’altra parte, si direbbe che il mondo dell’arte diffidi del mestiere. [...]
robert crumb
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4 commenti:
Molto interessante... E infatti, non a molti fumettisti piace essere chiamati "artisti"!
quanto e' bello il termine ''disegnatore'', fumettaro, fumettista, artigiano...ah il profumo della vita!
hai visto ke era il profumo e non il sale!!! capra!!
devo sopportare anche questi anonimi che lasciano commenti inopportuni..
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